RIFLETTORI SU... PATRIZIA MANDAGLIO (Scrittrice)

Ho fra le mani una piuma, per raccontarmi che posso ancora volare...


BIOGRAFIA
" Patrizia Mandaglio nasce a Maropati, in Calabria, il 21 Gennaio 1964. 

Sin da piccola si appassiona alla lettura e la poesia diventa il suo rifugio. Il matrimonio, il trasferimento in Toscana, a Prato, e la maternità. La città per lei è un mondo nuovo, pieno di possibilità. Decide così di segnarsi a una scuola di moda. Il diploma di modellista e la sua fantasia fanno il resto. Anni tra nuvole di chiffon e voile di seta degli abiti da sposa e paillettes e strass dei costumi da ballo. La scrittura arriva inaspettata non più di quattro anni fa.
Nascono le prime poesie e poi i racconti. I concorsi fatti un po’ per gioco e la piacevole sorpresa di vincerne qualcuno. L’ultimo, fatto con la casa editrice Le Mezzelane di Ancona, le ha portato in dono come primo premio il contratto per la pubblicazione di un libro.

A oggi così Patrizia ha abbandonato l’ago per la penna e ha un romanzo nel cassetto che sta per vedere la luce."



LA SUA SCRITTURA
Già, proprio così, come recitano i suoi versi, Patrizia ha una piuma in mano per raccontarsi e raccontarci che si può ancora volare. Quella piuma tra le sue dita diventa una penna magica che ci porta a passeggio tra versi mai banali e mai “forzati” in inutili ricerche linguistiche. Le sue poesie hanno insieme la forza e il calore che caratterizzano l’animo femminile della sua terra d’origine. Dentro le sue parole si sente il velo di sofferenza su cui però Patrizia cammina lieve, senza precipitare mai, con l’intensità e la dolcezza di chi ama questo splendido regalo che è la vita. Ho avuto la fortuna di incrociare dal vivo Patrizia in occasione di alcuni reading e vi assicuro che lei è realmente così; nessuno schermo e nessuna finzione tra lei e i suoi versi. Supportata peraltro anche da un’ottima qualità stilistica che si riscontra nella capacità narrativa dei racconti, la sua “ricchezza” di contenuti sa andare oltre la descrizione dei sentimenti per toccare vene “ironiche” (Pio De Pretis) o “impegnate” (Rachele). Non si conoscono ancora i tempi di uscita del suo romanzo, ma non ci sono dubbi sulla qualità di ciò che leggeremo. Perché Patrizia ormai la conosciamo. È nata da pietra piana. Solida e sicura.    (AI)

LE POESIE

La piuma

Ho fra le mani una piuma.
L’ultima.
Staccata da ali abilmente legate.
Le mie.
La uso per scrivere
per sciogliere i nodi
per raccontarmi che posso ancora volare.


In controluce
Guarderò la tua schiena scivolare via dalle pieghe del cuore.
Non ti chiederò di restare.
Lo fa forse col sole, la luna?
È la sua assenza che la rende regina.
Maestosa e fiera sarò, in un cielo d’inchiostro.
Quanto so brillare chiedilo al lago.
O al fiume o ad ogni specchio d’acqua.
Chiedilo al mare che mi fa l’amore,
quando superba e sicura
ne accarezzo le onde.
Sola. Coperta di nubi o di stelle saprò chi sono.
Non è più tempo per me di vivere di riflessi
ma di luce.
E tu, tu sarai solo l’ombra
di chi un tempo m’illuminava il cuore.

Di roccia e di polvere
Nasco da pietra piana. Solida. Sicura.
Di essa son frammento.
Angoli smussati,i miei,
levigati dal tempo e dal ruolo.
Mi modello
neanche fossi creta.

Piena per i vuoti,
vuota per accogliere.
Zeppa che riempie le crepe
m’incuneo, m’incastro, do stabilità.

Ma la sera sogno alla luna.
Mi vedo bastoncino di Shanghai.
Ma non si può, non si deve
perché nasco da pietra piana. Solida. Sicura.
Di essa son frammento.

Questa è per te
 
Bisognerebbe scrivere poesie ed affidarle al vento.
Qualche verso che si concluda con : “Questa è per te…”
Poche righe,vergate a mano, che parlino d’amore e di speranza.
Nessuna perla di saggezza, ma parole in movimento che sembrino carezze, abbracci o pacche sulle spalle.
Certo può sembrare folle, “Chi mai le leggerà?”, direte.
Non saprei. Lo farà forse l’uomo che porta fuori il cane, intabarrato tra un piumino e i suoi pensieri.
O forse no.
E se planasse alla stazione, su una panchina vuota di saluti e piena di un clochard?
Sarebbe bello.
Magari si adagia sulle acque di un fiume trovando nido tra le piume di un germano languido e indifferente.
Perché vedete, la poesia è imprevedibile, può arrivare ovunque.
Nella sporta della spesa, sulla tesa di un cappello, tra le mani di chi pensa d’aver pagato un prezzo troppo alto a questa vita.
“ Questa è per te…”, potrebbe innamorare, perché fra migliaia di persone ha scelto te e te soltanto.
Si, ne sono certa, bisognerebbe scrivere poesie ed affidarle al vento.



I RACCONTI


Pio De Pretis
Avrebbe dovuto mettere la maglia di lana sotto la casula, altro che il camice di cotone!
Ma alla televisione avevano detto che ci sarebbe stato bel tempo, invece guarda qua, ci sono delle raffiche di vento che portano via.
In testa al corteo un chierichetto con la croce, poi lui, dritto come un fuso, non lascia trasparire nessuna emozione. Eppure dentro, una ridda di pensieri gli affolla la mente. In religioso silenzio guida la piccola processione lungo il viale di cipressi che si ergono maestosi, come dita puntate verso il cielo. I valletti dell’agenzia funeraria fanno fatica a procedere lungo il percorso ghiaioso del cimitero portando a spalla la bara di mogano massiccio.



Gli aghi secchi del cedro libanese, poco più in là, fanno mulinello e finiscono la loro corsa contro i mucchi di terra accanto alla fossa.
La stola viola intorno al collo si alza beffarda ad ogni refolo. Fortuna che dietro c’è una tomba con tanto di angelo con le ali spiegate che fa da frangivento.
Avrebbe preferito che ad officiare la funzione funebre fosse venuto padre Gustavo ma un attacco di gotta improvviso l’aveva costretto al riposo assoluto.
Così è toccato a lui accompagnare per l’ultimo viaggio l’amico di sempre.
Che poi lui… il prete… manco lo voleva fare.

“…In paradiso ti accompagnino gli angeli, al tuo arrivo ti accolgano i martiri…”
L’aspersorio che disegna nell’aria una croce spruzzando una generosa cascata di acquasanta a benedire il feretro e la prima fila dei congiunti.
«Prego, padre Ildebrando, si allontani che dobbiamo calare la bara», gli dice l’impresario delle pompe funebri.



Una corda che cede e con un tonfo sordo la bara tocca il fondo. Due moccoli a denti stretti del becchino agli aiutanti e l’ultima parte del rito funebre:“L’eterno riposo dona a lui, o Signore, e splenda a lui la luce perpetua. Riposi in pace, amen”.
Si sposta di qualche passo per permettere ai parenti di pronunciare qualche parola di commiato. La prima è la moglie. Una rosa rossa tra le mani vestite di guanti di pizzo nero.
E poi via via tutti gli altri.
Qualcuno privo di fantasia dice: “E pensare che fino all’altro ieri eri così…così…così vivo!”

Beh, che fino all’altro ieri fosse vivo lo sapeva anche lui. Pio si era presentato come tutte le mattine alle otto in punto in canonica e cinque minuti prima, come sempre, lui aveva messo la caffettiera sul fuoco.

«Ciao Brando», gli aveva detto pulendosi i piedi sullo zerbino. Era l’unico a chiamarlo Brando. Da sempre. Da quando avevano i calzoni corti. Gli altri lo prendevano in giro per quel nome strampalato che i suoi si erano divertiti a mettergli. Avrebbe dovuto essere come quello dello zio monsignore, Ildebrando, che già di suo faceva vomitare, ma l’impiegato dell’anagrafe era riuscito a fare di meglio storpiandolo.
Per fortuna di cognome faceva “Vittorioso”, il che pareggiava un po’ i conti.
“Il destino sta nel nome”, gli diceva sempre suo padre per mitigare un po’ quella scelta infelice, dovuta più che altro a una forma di riconoscenza verso il fratello vescovo che ogni tanto gli allungava qualcosa.
È che la natura si era un po’ divertita con lui e di Vittorioso ci aveva poco. Lungo allampanato, gracile, con i capelli tagliati alla “Paggio Fernando” perché così coprivano le orecchie a sventola. Il naso adunco sistemato fra due occhi enormi, per i quali si era guadagnato l’appellativo di “Allocco” per la vaga somiglianza con il pennuto notturno e non certo per l’intelligenza, che al contrario di quelle capre dei suoi compagni di scuola era molto vivace.

“ Lungo lungo e fesso fesso Idelbrando pare un cesso”, gli pare ancora di sentirli. Maledetti!

Ma Pio lo aveva sempre difeso. Oddio, non è che lui fosse messo meglio, Pio Depretis, si chiamava. Depretis tutto attaccato, che poi da grande aveva trasformato, perché il “De” da solo faceva fine. Il fatto è che a lui nessuno osava prenderlo in giro. Era il più forte, il più popolare e decisamente il più bello. Ed era suo amico.
Brando! Uhm, come gli piaceva pronunciato da lui. Aveva un suono così pieno, così sensuale.
Che lo mandasse pure all’inferno il creatore, per questi suoi pensieri peccaminosi, ma in fondo lui, il prete… manco lo voleva fare.
Lo aveva amato da subito, Pio, e aveva continuato a farlo anche quando era in seminario. I suoi erano poveri, non potevano permettersi di mandarlo a scuola, ma con lo zio ammanicato con la curia erano riusciti a farlo entrare. “Per studiare”, aveva sottolineato suo padre, comunista fino al midollo, ”solo per studiare!”
Pio lo andava a trovare, ridevano, scherzavano, si raccontavano cose, a volte gli portava dei giornalini di Tex o di Diabolik e quando gli andava bene anche delle sigarette di Marlboro sgraffignate al padre. Si nascondevano in giardino, dietro la statua della Madonna dell’Incoronata e fumavano. Una volta era capitato che padre Serafino affacciandosi alla finestra notasse il filo di fumo uscire da dietro la Vergine e urlasse al miracolo: «Correte, correte, l’anima beata sale verso il cielo!» Pover’uomo, con i suoi novantotto anni suonati e l’Alzheimer come compagno non se lo filava nessuno. E menomale, se lo avessero scoperto poteva scordarsi di ricevere visite dall’unica persona che aspettava con ansia.


Un giorno, nel chiostro, seduti all’ombra del loggiato Pio gli aveva confidato di essersi innamorato.
Per un attimo aveva perso il respiro e il cuore si era aperto alla speranza, ma poi Pio aveva aggiunto: «Sai Brando, non si tratta di scopare, io Giulia l’amo davvero».
Gli era crollato il mondo addosso. Si era sentito come quella volta che si erano rotti i freni della bicicletta e si era stampato contro un muro. Aveva sentito il pomo d’Adamo, grosso come una nespola, salire e scendere lungo il collo magro, poi con un sorriso forzato e una vocina stridula era riuscito a dire: «Sono contento per te…».
È per questo che si era avvicinato al sacerdozio, perché nulla ormai aveva più importanza per lui.
Se lo ricorda ancora quando lo aveva detto ai suoi; era la vigilia di Natale. Se lo ricorda perché avevano passato la notte all’ospedale; suo padre aveva avuto una colica di fegato.

Caffè corretto alla sambuca e un cucchiaino di zucchero, così piaceva a Pio.
Non lo avrebbe confessato neanche sotto tortura che ogni volta, appena usciva dalla sua cucina, metteva le labbra sul bordo della tazzina esattamente dove si erano appoggiate le sue.

«Brando ti devo parlare», gli disse quella mattina, «dell’associazione. Ho deciso di mollare. Troppe beghe, troppe complicazioni. E poi Giulia ed io vorremmo ritirarci in un posto tranquillo, al mare,magari all’estero.»
«All’estero?»
Per poco non s’era strozzato con la mollica di pane che stava intingendo nel rosso d’uovo, la sua colazione.
Voleva mollare? Ma come? Era stato lui a proporgliela l’associazione.
E lui aveva accettato senza battere ciglio, non che gli interessasse più di tanto, i poveri sarebbero sempre stati poveri, ma lavorare fianco a fianco con lui, averlo vicino, era quello che più desiderava al mondo.

“Tu con i tuoi poveri ed io con il saperci fare realizzeremo grandi cose”, così gli aveva detto.
E ora? Abbandonava tutto. Ma soprattutto, abbandonava lui.
Gli aveva confessato quanto si sentisse mortificato per la delusione che gli stava dando. E che doveva fare lui? Lo aveva ascoltato, lo aveva assolto… e gli aveva dato la giusta penitenza.
In fondo era un prete, anche se lui il prete… manco lo voleva fare.

Ed ora eccola lì, Giulia, la vedova inconsolabile, la legittima, che asciuga lacrime inesistenti.
La guarda e sorride, di un sorriso cattivo, di chi sa e non può raccontare. Nel segreto della confessione si viene a conoscenza di tante cose.

Lei lo ha avuto per se per trent’anni, pensa con rabbia, ma non le appartiene più ora.
Pio è seppellito sotto due metri di terra e lui verrà a trovarlo tutti i giorni che gli restano da vivere. Oh, si, lo farà! Potrà finalmente raccontargli del suo amore per lui. È tutto suo ora. Suo e di nessun altro. Era destino, pensa guardando l’incisione sulla lapide, “Pio De Pretis”, perché il destino sta nel nome.






Rachele





Che paese strano, il paese di Rachele. Nonde di sopra.
Se non fosse per quel cartello mezzo sgangherato e rugginoso che lo rammenta si potrebbe pensare che non esiste.
È arroccato su un costone da centinaia di anni, alle spalle un bosco impenetrabile e di fronte il nulla. Già perché questo paese dimenticato da Dio e dagli uomini è a strapiombo sul mare. Visto dall’alto ricorda un pettine. Il lato lungo è disegnato da una serie di case addossate una all’altra a formare una linea retta. Da questa spina dorsale sporgono come rebbi di una forchetta le viuzze, i vicoli, i canti che degradano fino al limite ultimo.
Poi il vuoto.
La chiesa è al centro esatto, quasi come a voler sottolineare che tutto parte e tutto ritorna da li.
Per Rachele la chiesa rappresenta lo scandire del suo tempo. Gigli bianchi sull’altare per la sua prima comunione, fiori d’arancio e mughetti per il suo matrimonio, incenso e canti di congedo per questo giorno da tempo atteso. Si guarda Rachele e sorride. Indossa un abito di un azzurro intenso. Le piace l’azzurro è come respirare il profumo del mare quando le onde s’infrangono sugli scogli. Qualcuno le ha fatto notare che forse non è il colore più indicato vista la circostanza, perché non sanno, non possono sapere. Ma oggi non è un giorno come gli altri per Rachele, oggi è il suo giorno. I rintocchi mattutini dell’orologio della chiesa l’hanno trovata sveglia. Ha cominciato a vestirsi all’alba. Ogni gesto è un rito. Il suo abito racconta. Racconta di ieri e di oggi. Si sorprende a lisciarlo, parla di lei, è come se accarezzasse la sua vita, la sua lunga vita.
Già, ma quanti anni ha? Non se lo ricorda più. Sa di essere nata quando la prima guerra mondiale non era ancora finita e ora che sta per concludersi la terza, la sua guerra personale si sente stanca. È un attimo, poi si scuote, non vuole cedere alla tristezza, non oggi. Si guarda allo specchio, e questi, corroso dal tempo e dalla salsedine le rimanda l’immagine sbiadita di una bellezza antica. Perché Rachele oggi si sente bella. Come tanti anni fa quando ha varcato la soglia di questa casa. Vorrebbe non pensarci ma i ricordi sono come acqua tra le dita, non riesce a trattenerli. E allora si rivede, giovane sposa nella sua casa in discesa. Già perché la sua casa è l’ultima dell’ultima via, la più ripida, e sembra li li per scivolare a mare. Un parapetto di fortuna, più simbolico che funzionale la separa dal vuoto. È stata felice per un po’, ma solo per un po’. Non sa cosa è successo dopo, se è stato il suo grembo sterile, i soldi che non bastavano mai o l’alcool a fare di suo marito il mostro che è diventato. Quante volte ha desiderato volare come quei gabbiani che sente stridere oltre la scogliera?
È da tempo che non li sente più, da quando lui le ha rotto un timpano con un pugno. L’ha schiacciata finché ha potuto, poi è stata la vita a schiacciare lui. Si è ammalato, di una malattia degenerativa, ma questo non gli ha impedito di inveire contro di lei, di insultarla, di comandarla. Ma piano piano le capacità motorie vengono meno, dipende sempre più da lei, la frustrazione, la rabbia,la paura… poi la resa. E la richiesta: “Ti prego Rachele, fammi morire…”
Ma Rachele non sente ha il timpano e il cuore rotti: “Rachele,ti prego…”

Quante volte ha pregato anche lei quel Dio nell’alto dei cieli? Ma lui non l’ha mai ascoltata. Forse perché è troppo in alto o forse perché ha i timpani rotti… anche lui. Ma Rachele non ha bisogno di sentire, gli legge le labbra, sa cosa le sta chiedendo. L’accontenterà, ma a modo suo. Ha deciso di ucciderlo. Condannandolo a vivere.

Così, giorno dopo giorno, lo lava, lo nutre, ammorbidisce le sue piaghe con unguenti, lo cura con gesti lenti e sapienti… come se lo amasse.
E come una nenia gli racconta con dovizia di particolari come l’ha fatta sentire in tutti quegli anni, quando sfogava su di lei la sua frustrazione e la sua rabbia.

Gli parla piano, vuole che la sua mente, come la terra arida, assorba la pioggia acida delle sue parole.
Sa che la sta ascoltando, lo vede dai suoi occhi, l’unica cosa mobile che gli è rimasta.
E in quegli occhi vede passare la rabbia, l’impotenza di non poterla più afferrare per la gola… ancora e ancora e ancora.
Il male non prende lezioni da nessuno e Rachele se ne rende conto. E qui si ferma e lo lascia andare.

Tra poco arriveranno a prenderlo per portarlo in chiesa. Là, da dove tutto parte e tutto ritorna.
E Dio sarà costretto ad affacciarsi questa volta per riprendersi quanto ha creato. “ Io, il mio l’ho fatto”, pensa Rachele, “ora è tutto tuo.”

Spalanca tutte le finestre e l’aria di mare si precipita all’interno, insinuandosi in ogni angolo. La casa respira, come un enorme polmone. È leggera, fluttuante. E Rachele è bella…è giovane…è libera.

A Nonde di sopra la sua assenza al funerale è rimasta un mistero. C’è chi giura di averla vista andar via verso il bosco, chi verso il mare. La casa in discesa è rimasta aperta, bisognerebbe chiuderla.
E quel parapetto poi… andrebbe riparato, qualcuno potrebbe cadere di sotto e di certo non si salverebbe. Non è mica come questi gabbiani che si tuffano in picchiata e poi si rialzano librandosi in volo fino a confondersi col cielo di un azzurro intenso.








Roba dell’altro mondo



– E’ stato sedato?
– Si , professore…

Parlano di me come se non ci fossi. In fondo è vero. Istupidito, legato a questo letto, ma io non sono pazzo.
– Ehi, voi, mi sentite? Non sono pazzo!
Niente, non mi guardano neanche. È così da giorni. Devo stare calmo, devo fingere di essermi inventato tutto o mi manderanno in pappa il cervello con quella merda che mi iniettano nelle vene.

Ho provato a raccontare l’accaduto, Dio se ci ho provato, ma non mi hanno creduto.
È vero, urlavo quando è arrivata quella volante, ma se solo avessero visto quello che ho visto io!

Ho paura a chiudere gli occhi, temo possa tornare. Punto lo sguardo al soffitto. C’è una macchia d’umido larga come un tombino e qui dentro puzza di piscio. Il mio. Al confronto la cella di San Vittore sembrava una stanza d’albergo.
È lì che ho conosciuto Santino, detto Quattrodita. Il pollice della mano sinistra l’ha lasciato in pegno alle fauci di un mastino, messo a guardia della villa che aveva tentato di svaligiare.
Santino.
Devo a lui tutto quello che so.
Quando è arrivato io ero ospite dello stato già da un mese. Rissa e resistenza a pubblico ufficiale, l’accusa. Me la sarei cavata anche con poco se non avessi sputato in faccia all’avvocato d’ufficio. Un coglioncello fresco di laurea che più delle mie generalità non ha saputo dire. Puah!
Visto che ormai c’ero di casa in galera, mi sono toccati otto mesi senza la condizionale.
Non che la cosa mi facesse perdere il sonno: mangiare, bere, qualcuno che mi passava un po’ di fumo di straforo e la seduta con la psicologa due volte al mese.
Che donna ragazzi! Anche se del suo mestiere non ci capiva un cazzo.
Se ne stava lì seduta davanti a me a chiedere, a scavare, impassibile.
Le ho raccontato di un’infanzia infelice, della povertà, della sorte avversa, di cattive compagnie.
La verità è che erano tutte stronzate. Mio padre è un industriale e mia madre un medico, faccio quello che faccio perché mi piace.
Andavo da lei soltanto perché aveva due meloni così e per evitare di fare il laboratorio di falegnameria previsto dal carcere.
A pensarci ora, visto come sono messo, preferirei piallare e molare, piuttosto che essere immobilizzato a questa branda.

Ho deciso, ritratto tutto, voglio uscire da questo posto. Ma come faccio? Non posso dire che ero fatto né che ero ubriaco perché dalle analisi sanno che non lo ero.
Certo, non devo essere stato un bello spettacolo, ma sfido chiunque a non perdere la brocca trovandosi davanti a… ma che fanno mi chiudono la luce!

˗ Ehi, non chiudete la luce!
˗ Dorma!
˗ No, voi non avete capito…potrebbe tornare…vi prego…

Non mi ascoltano. Non lo fanno mai. Devo rimanere vigile, vigile! Devo pensare, pensare, pensare… per non addormentarmi. Dormirò domani, con il giorno. Si, farò così.

“ È un lavoretto facile, vedrai. Il mio gancio dell’agenzia viaggi ha detto che i proprietari mancheranno per due giorni”, così mi ha detto Santino.
Il fatto è che a me le cose facili non piacciono. Dove stà il brivido? Ho bisogno di provare l’adrenalina di essere colto sul fatto. Avrei dovuto rimanere a casa, ma lui ha insistito così tanto che alla fine ho accettato.

Niente allarme. La finestra blindata ha ceduto come burro. Appena entrato mi ha investito l’odore buono di cera per i mobili. Non ho acceso neanche la torcia. Mi muovo bene nel buio. Ho le vibrisse come i gatti.
È stato facile trovare l’oro. Lo tengono tutti nello stesso posto. Nel primo cassetto del comò.
Avevo quasi fatto, stavo per andarmene quando ho sentito un fruscìo dietro la schiena. Mi sono girato di scatto.
Niente.
Un sibilo, quasi impercettibile e una ventata d’aria gelida.
Ho fatto per muovermi ma ero bloccato, le gambe si rifiutavano di obbedirmi, mentre invece il mio braccio destro si alzava di scatto.
Un dolore tremendo alla guancia. Non capivo.

Ho acceso la torcia, mi tremavano le mani, il fascio di luce ballava nella stanza da destra a sinistra.
Il letto, i comodini l’armadio e nient’altro. Eppure avvertivo la presenza di qualcuno.

˗ Ehi, chi cazzo sei? Fatti vedere!
Piccola, minuta, vestita di nero con dei guanti bianchi e fra le mani un rosario. Mi si è piazzata davanti all’improvviso, il colore del volto che oscillava fra il bianco d’opale e il cinereo di un cielo di novembre. E gli occhi, oh gli occhi, non li dimenticherò mai ! Mi fissavano spenti, come se guardassero oltre la mia persona.
Un odore di fiori, intenso, mi stordiva.

˗ Senti nonna, fammi passare e nessuno si farà del male.
Stock!
La torcia fra le mie mani che incontra la mia fronte con violenza.
˗ Ma che ca…!
˗ Ti pare bello quello che stai facendo? Metti subito a posto quello che hai preso.
Una voce leggera e pure autoritaria in fondo alla stanza.
Due secondi prima era di fronte a me e ora…che stava succedendo?
Andava, veniva, non camminava, scivolava sul pavimento, ora in qua ora in là, sotto gli occhi o dietro la nuca. Raffiche di gelo mi impedivano di muovermi. Un pensiero terrificante si era affacciato nella mia mente.
˗ Ok, ok, poso tutto ma lasciami andare!
Ho svuotato le tasche ma i piedi continuavano ad essere di cemento.
Un calore fra le cosce a raccontare la mia paura.
˗ Cosa diavolo vuoi ancora da me?
Da dietro l’orecchio la sua voce come un’eco che arrivava da lontano: “A quanto ammonta il danno che hai fatto?”

˗ Quale danno? Ahi!
Di nuovo la torcia.

˗ Il vetro.
˗ Venti…trenta euro..ahi…porca putt…
Un rumore di cocci all’inguine, la torcia come un manganello.
˗ Cento, ok? Anzi centocinquanta, ma lasciami andare!
Centotrenta …più un pezzo da cinque… più due euro e sessanta centesimi e una pallina di filo. Avevo svuotato le tasche.

˗ Ascolta non ho altro… ˗ cercavo di giustificarmi .
˗ Lascia lì e sparisci.
Non me lo sono fatto ripetere due volte. Ho quasi sbattuto contro la finestra e due secondi dopo ero già aggrappato alla grondaia.
Lei era lì, sul terrazzo, a guardarmi, la gonna nera svolazzava e non c’era un filo di vento. Mi sono messo a correre come un disperato nella strada deserta continuando a guardarmi indietro.
All’incrocio la volante.
E ora eccomi qui.

˗ Buonasera dottoressa. Quando è tornata?
˗ Buonasera Anna. Ieri l’altro. Sono distrutta.
˗ Lo immagino, le faccio le mie condoglianze.
˗ Grazie Anna. Lo so, era anziana, ma insieme a mia nonna va via una parte di me. Anche se, le dirò, la sento sempre vicina.

C’è il cambio di turno. Mi piace sentire parlare. Mi fanno compagnia le voci e mi impediscono di addormentarmi.

˗ Ecco dottoressa, queste sono le consegne. Ah, ne abbiamo uno nuovo. Povero Cristo. Dice di vedere i fantasmi.
˗ Beh, non deve essere l’unico ad avere bisogno della neuro. Pensi che in nostra assenza qualcuno si è introdotto in casa , non ha toccato niente e in più ha lasciato dei soldi sul comò.

Di cosa stanno parlando? Del furto… dei soldi? Stanno ridendo. Stanno ridendo di me. Non ci posso credere.

˗ Bene dottoressa, io vado. Vediamo se stasera riesco a dare la buonanotte al mio bambino, di solito lo trovo sempre addormentato.
˗ Vada pure Anna ci vediamo domani.

Il rumore della porta automatica e dei passi lievi nel corridoio.
L’ombra della dottoressa si staglia davanti alla porta della mia camera. Socchiudo gli occhi , faccio finta di dormire.
La sento prendere la cartella ai piedi del letto. Minuti interminabili. Sento un profumo di fiori. Forte. Intenso. Mi stordisce.
I passi si allontanano, sollevo le ciglia, a un palmo dal naso, piccola, minuta, vestita di nero con dei guanti bianchi e fra le mani un rosario, lei.
Un urlo cerca un varco nella gola ma mi fa cenno di stare zitto: “Schhh, non farlo. Domani vengono i tuoi a prenderti…e vedi di non fare più il cretino.

Stock! Un nocchino sulla fronte arrivato da chissà dove.
Non cammina, scivola verso la porta, e ci giurerei, e non sono pazzo, di averla vista farmi l’occhiolino.




Vite incrociate 

“Gentile Famiglia Lovati, la scuola ha organizzato una gita per le classi primarie alla fattoria Belvedere, sul Monte Morello. Un percorso educativo tra giochi, animali, escursioni ed esperienze a contatto con la natura.
Il costo è di euro 25.
Il ritrovo è in piazza stazione mercoledì alle 8:30.”
«Francy lo porti tu Andrea?»
Teneva la comunicazione scolastica fra le mani mentre a letto la moglie gli dava la schiena.
«Non posso» gli aveva risposto assonnata, « Ho già preso un’ora la settimana scorsa per portarlo dal dentista, se chiedo al mio capo un altro permesso mi scortica viva.»

Ma proprio di mercoledì la dovevano fare? aveva pensato lui mentre scivolava dentro le lenzuola. Mercoledì era il giorno in cui arrivava da Parigi il suo migliore acquirente, avevano fissato per le 9:00 davanti all’oreficeria, presentarsi in ritardo sarebbe stato imperdonabile.
Avrebbe potuto portarlo prima il bambino, affidarlo alla maestra e con un po’ di fortuna ce l’avrebbe fatta ad arrivare in tempo.
Andrea era abituato, lo sapeva che era una necessità. Semmai era lui che non si abituava mai a vedere quel faccino rassegnato mentre lo guardava andare via. Almeno avesse fatto i capricci, avesse pestato i piedi, no, rimaneva lì impalato a salutarlo con la mano.
Aveva abbracciato la moglie cercando nel tepore del suo corpo la consolazione a quel senso di colpa ma lei era già addormentata, troppo stanca. Non si faceva niente. Neanche quella sera.

«Voglio mettermi la felpa delle Winx, babbo, quando andiamo in gita», aveva detto sua figlia dal sedile posteriore dell’auto mentre la portava ai giardini. L’aveva guardata dallo specchietto retrovisore e si era intenerito.
Aveva lasciato l’avviso della scuola sul tavolo della cucina prima di uscire con la sua bambina.
“ Gentile famiglia Spadoni…” recitava.
Venticinque euro. Cos’erano venticinque euro ? Niente per molti. Ma non per lui. La luna le avrebbe dato, altro che venticinque euro! Ma dove li prendeva? Era già grassa se riuscivano ad arrivare a fine mese. Chiedere ai suoi? No, si vergognava a morte, già facevano quello che potevano. Sua madre aveva la pensione sociale e suo padre riscuoteva la minima. Dopo una vita di lavoro aveva avuto l’amara sorpresa di scoprire che gran parte dei contributi non gli erano stati versati. In quanto ai genitori di Clara beh, meglio lasciare perdere…
Sua figlia era convinta che fosse il padre migliore del mondo perché c’era sempre. La vestiva, la pettinava, la portava a scuola la mattina, la riprendeva e le preparava il pranzo.

“Babbo quando sarò grande io ti voglio sposare”, gli diceva sempre.
Come faceva a dirle che c’era sempre perché non aveva un cazzo da fare, perché l’avevano licenziato e a cinquant’anni non c’era un cane che lo prendesse a lavorare?
Come faceva a spiegarle il senso di frustrazione che provava quando sua moglie tornava a casa, distrutta per essere andata a fare faccende in tre case diverse? Come?
Ora la guardava, quel soldino di cacio alle sue spalle, con gli occhi verdi di sua moglie e quel sorriso sdentato che lo faceva sciogliere come burro.

« Emma, la palla la vuoi?»
«No, voglio andare sull’altalena, mi spingi? Però forte, eh babbo? Voglio arrivare fino in cielo!»
E giù gridolini misti tra gioia e paura.
Il cigolio della catena, il pianto di un bambino caduto dallo scivolo, Emma con le sue gambette penzoloni, Emma che diceva:
“Voglio mettermi la felpa delle Winx, babbo, quando andiamo in gita…”, e i soldi, maledetti soldi…

Ha studiato tutto nei minimi dettagli. Si è appostato poco prima della curva della Petrosa, in uno spiazzo, coperto in parte da un cespuglio di sambuco, da qui riesce a dominare con lo sguardo il rettilineo che porta al paese. Conosce i suoi movimenti, ha la matematica certezza che passerà da quella strada, una scorciatoia poco trafficata che in un lampo lo porterà in prossimità della tangenziale. Probabilmente l’uomo che aspetta ha tempi stretti e l’oreficeria di Corte alla Selva è solo la prima delle sue tappe.
Il tempo di formulare il pensiero che una berlina nera fa capolino in fondo allo stradone.
D’istinto si tocca la tasca della giacca e prova un brivido. “ Niente ripensamenti”, si dice, “indietro non si torna!”
Mette la moto di traverso sull’asfalto, si sdraia accanto in una posa scomposta, il casco a coprire i lineamenti del volto e una preghiera al creatore.
Lo stridore dei freni a pochi metri dal suo corpo gli provoca un sussulto. Sente aprirsi una portiera e una voce concitata urlare: «Oh mon Dieu…monsieur, monsieur… il m’entende?»
Attraverso la visiera oscurata lo vede accovacciarsi ed è un attimo prima che la pistola nella sua mano punti alla tempia del suo soccorritore.
«Dammi la valigetta con l’oro e non ti succederà nulla» lo minaccia in balìa alla disperazione.
Un boato.
Un battito d’ali tra il fogliame degli alberi che delimitano la carreggiata e quel foro a pochi centimetri dallo sterno. Avrebbe dovuto prevederlo che chi tratta roba di valore ha il permesso di girare armato. Del dolore lancinante iniziale è rimasto l’eco e un sapore metallico in bocca. Non sente più niente. Il corpo è diventato di sasso. La vita gli scorre davanti agli occhi che ormai puntano sempre più in alto, verso il cielo…

«Verso il cielo! Sempre più in alto! Forza babbo spingi, perché ti sei fermato?»
«Eh…? No, scusa amore, mi ero distratto… Tieniti forte scricciolo che il babbo ora ti fa volare.»
Ma guarda che pensieri del… ma che mi è andato in pappa il cervello? pensa quasi spaventato.
Nella mente una certezza: non si arrenderà, certo che non si arrenderà. Lo troverà un lavoro prima o poi.
Tira fuori il cellulare dalla tasca, fa un respiro profondo e…
«Pronto pà ? Ho bisogno di te. Ancora.»
«Vieni, sono qua. Anzi, perché non vi fermate a cena stasera? La mamma ha fatto la parmigiana.»

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